Il depistaggio dopo le stragi

Qui tutto ha un inizio, voci inascoltate, testimonianze che denunciavano un “sistema criminale” – così il procuratore di Firenze prima e Procuratore dell’Antimafia dopo, Pier Luigi Vigna (Borgo San Lorenzo, 1º agosto 1933 – Sesto Fiorentino, 28 settembre 2012) – chiama l’insieme dell’assetto mafia – politica – ombre oscure.

Non si è sbagliato a definire “veritiere” le dichiarazioni del pentito Franco Di Carlo, ascoltato da lui che di azioni terroristiche e morti strazianti se ne intendeva.

Inizia nel 2014 quella confessione, la prima della serie, per il pentito Di Carlo (che appare inizialmente col viso coperto) nei vari processi sulle “stragi di Capaci e Via d’Amelio” in cui dichiara: “i pm di Caltanissetta stanno processando qualcuno che ha avuto una minima parte nell’attentato” e continuando afferma: “Non penso che così si possa chiudere il capitolo della partecipazione di entità estranee a Cosa Nostra”.

In un articolo riportato già allora su Antimafiaduemila, si legge:

“Il processo Capaci-bis, grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, punta a individuare le responsabilità delle persone che hanno partecipato al reperimento dell’esplosivo che fece saltare in aria le auto in cui viaggiavano Giovanni Falcone, sua moglie e gli agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. L’ultimo capitolo della storia processuale della strage riguarda la fase preparatoria. Alla sbarra, oltre al boss Salvo Madonia, i “picciotti” della cosca di Brancaccio – Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello – gli uomini dei Graviano che curarono il recupero in mare e la preparazione dell’esplosivo”.

Ma non è tutto, l’articolo continua così:

“Quegli strani oggetti ritrovati sul luogo del massacro, a circa 60 metri dal centro del “gran botto” – un sacchetto di carta, una torcia elettrica, un tubetto di mastice, guanti in lattice – hanno dato molto da fare agli investigatori. Per lungo tempo si è ritenuto che potessero essere stati portati nel luogo della strage da mani esterne a Cosa nostra. Dopo oltre vent’anni dai fatti, la ricomposizione della scena del crimine è assai difficile ma intanto oggi si è fatto un passo in più: è stata rinvenuta, come è noto, un’impronta (l’indice della mano destra) di Salvatore Biondo – uno dei boss già condannati per la strage – sulla pila inserita all’interno della torcia. Una prova ritenuta decisiva dalla Procura nissena per ricostruire la realizzazione dell’attentato.

Non dimentichiamo la frase riportata circa le parole di Pietro Grasso, quando era Procuratore Nazionale Antimafia:

“Non c’è dubbio – disse durante un’audizione parlamentare – che la strage sia stata commessa da Cosa Nostra. Rimane però l’intuizione, il sospetto, chiamiamolo come vogliamo, che ci sia qualche entità esterna che abbia potuto agevolare o nell’ideazione, nell’istigazione, o comunque possa aver dato un appoggio all’attività della mafia”.

Dopo aver citato numerosi passaggi delle sentenze sulla vicenda, fu lui a porre una domanda ai Commissari dell’Antimafia: “Perché si passò dall’ipotesi di colpire Falcone mentre passeggiava per le strade di Roma all’attentato con 500 chilogrammi di esplosivo collocato a Capaci?”.

Non ci sembra proprio che ad oggi, visto il “depistaggio sulla strage di Via d’Amelio”, le cose siano andate nella giusta direzione e a darne conferma è anche il Procuratore di Catania Petralia che durante il suo interrogatorio, avvenuto qualche giorno fa presso il Tribunale di Caltanissetta e riportato da Ilfattoquotidiano che scrive, il 20 gennaio, quanto segue:

“Sulla strage di Via d’Amelio non indagò solo la procura di Caltanissetta e i poliziotti di Arnaldo La Barbera. No, c’erano anche Bruno Contrada, il Sisde, ma pure l’Fbi e persino il Bundeskriminalamt tedesco.”

Sottolinea la redazione del FQ:

“L’attuale procuratore aggiunto di Catania, Carmelo Petralia, all’epoca dei fatti era tra i pm che a Caltanissetta indagarono sull’autobomba che il 19 luglio del 1992 uccise Paolo Borsellino e cinque uomini della scorta.”

Il procuratore Petralia aggiunge:

“Mi spiace dirlo ma la presenza di Bruno Contrada negli uffici della Procura di Caltanissetta” dopo le stragi mafiose del 1992 “mi evocava qualcosa di sinistro“, ha detto Petralia, deponendo al processo per il depistaggio Borsellino a Caltanissetta.

“Oggi è relativamente facile cogliere le criticità di quell’indagine. Ma allora c’erano i poliziotti che portavano elementi che avevano suscettibilità di sviluppo investigativo. Loro ci credevano e io non avevo gli strumenti per sospettare una malafede”

Ed ancora:

“Alla domanda del pm se Petralia fosse a conoscenza di indagini su Contrada da parte della Procura di Palermo, dice: “No”. Però poi aggiunge: “La sua presenza mi evocava qualcosa di sinistro”. Perché “mi riferivano del rapporto di scarsa stima che Giovanni Falcone aveva nei confronti di Contrada“.

Qui dobbiamo fermarci, la riflessione ci porta alle indagini e riunioni che solo un “giudice caparbio come Paolo Borsellino”, poteva effettuare fuori dal “palazzo dei veleni” e solo con quei Carabinieri che erano stati vicino al fraterno amico Giovanni Falcone.

Dobbiamo per forza di cose rivedere alcune posizioni e alcuni processi se vogliamo capire l’importanza delle testimonianze di Francesco Di Carlo a partire dal 1996, perché proprio in quell’anno Di Carlo decise di collaborare con le autorità italiane e fu trasferito dalla sua prigione londinese a Roma, venne considerato come il “nuovo Tommaso Buscetta“.

Continueremo nel prossimo articolo il racconto “oscuro” delle stragi, degli intrecci, delle ombre oscure e di ciò che va detto.

Fonte Il Format

Lascia una recensione

Ultimi articoli

spot_img
spot_img
spot_img
spot_img
spot_img

Articoli più letti